Le co-dipendenze affettive

Approfondimenti sulle opportunità di sviluppo & liberazione

“Un uomo, signora, ha sempre paura
di una donna che l’ama troppo”
(Bertold Brecht)

LE CO-DIPENDENZE AFFETTIVE – la danza non sana tra maschile e femminile

Premessa e scenario generale
In quest’epoca, in cui ci troviamo ad assistere al sempre crescente e terrificante fenomeno del femminicidio, i maggiori esperti del campo tornano a ripetere, oggi più che mai, che una relazione di coppia “efficace” e consapevole porta inevitabilmente a una società più evoluta ed equilibrata, al riparo da violenze fisiche e soprattutto psicologiche. È dunque anche per la cogente attualità dell`argomento (qual`é la vera ferita originaria ed originante tanta oscurità?), e non solo perché trovo si tratti di un malessere molto diffuso nell’universo femminile, che ho deciso di includere l’argomento delle co-dipendenze affettive nel mio seminario di Counseling di genere. Ritengo, infatti, che la sintomaticità di questo disagio abbia ormai raggiunto altissimi livelli di diffusione, nonostante le molte donne che ho incontrato invischiate in codeste pastoie si ritengano delle deboli perdenti nonché una rarità isolata (il che acuisce il disagio, amplificato dal senso di inadeguatezza e di vulnerabilità). Ma di che si tratta precisamente, visto che solo recentemente questa voce “diagnostica” è rientrata anche nel vocabolario, anche medico, nostrano?

Tutti siamo stati bambini e i bambini sognano. I maschietti di essere eroi, senza macchia e senza paura, che sconfiggono draghi e liberano principesse dalle torbide grinfie di un perfido mago. Le femminucce fantasticano di essere bellissime principesse rinchiuse in una tetra torre, in attesa che il cavaliere senza macchia e senza paura venga a liberarle sul suo bianco destriero. Ma, come tutti i sogni, anche questo è destinato a finire. E, così, l’eroe e la principessa si ritrovano adolescenti, e poi adulti, che cercano disperatamente qualcuno che li faccia sentire importanti, che li riconosca per quell’eroe e quella principessa che speravano di essere. E quando credono di averlo trovato, non lo mollano più. Un bel rapporto simbiotico, eccitante come… una camera a gas. Un doloroso gioco a due, un circolo vizioso, una sofferenza atroce. Questa è la dipendenza affettiva.

Come già menzionato, si tratta di un disturbo che soltanto da pochi anni in Italia sta interessando clinici e ricercatori, che, a diverso titolo, si occupano del fenomeno delle dipendenze, mentre negli Stati Uniti da più di 30 anni sono condotte ricerche su questa tematica. Essa rientra nella più ampia categoria delle New Addictions (Nuove Dipendenze), che comprendono tutte quelle forme di dipendenza in cui non è implicato l’intervento di alcuna sostanza chimica (droga, alcol, farmaci, ecc.), bensì l’oggetto della dipendenza è rappresentato da comportamenti o attività che sono parte integrante della vita quotidiana. Tali comportamenti, in alcuni individui, possono assumere caratteristiche patologiche, fino a invalidare l’esistenza del soggetto stesso e il suo sistema di relazioni, provocando quindi gravissime conseguenze (oltre alla dipendenza affettiva, tra le New Addictions, possiamo annoverare: la dipendenza dal gioco d’azzardo, da internet, dallo shopping, dal lavoro, dal sesso e dal cibo).

Possiamo definire la dipendenza affettiva come una forma patologica di amore caratterizzata da una costante assenza di reciprocità all’interno della relazione di coppia, in cui uno dei due (dalle ricerche emerge che il 99% dei soggetti dipendenti affettivi appartiene al sesso femminile – dati raccolti, già nel 1994, da David Miller, Professore di Sociologia presso l’Università di Bath – mentre la fascia di età è variabile e si estende dalle post-adolescenti – età dai 20 ai 27 – fino alle donne adulte con figli, sia piccoli che grandi) riveste il ruolo di donatore d’amore a senso unico e vede nel legame con l’altro, spesso problematico o sfuggente, l’unica ragione della propria esistenza. Alla luce dei dati che mostrano una quasi assoluta prevalenza del sesso femminile, è difficile non considerare gli aspetti socio-culturali come co-responsabili dello sviluppo di questa patologia.

La continua ricerca d’amore ha tutte le caratteristiche della dipendenza da sostanze, tanto da condividerne alcuni aspetti fondamentali. Anthony Giddens (“The Transformation of Intimacy”, 1992), infatti, distingue tre principali caratteristiche della “Love Addiction” che la connotano esattamente come una vera e propria forma di dipendenza:

1) IL PIACERE CONNESSO ALL’AMORE: la sensazione di piacere che il dipendente prova quando è con il partner; gli è indispensabile per stare bene e non riesce ad ottenerla in altri modi. Definito anche “ebbrezza”, ovvero la sensazione di euforia sperimentata in funzione delle reazioni manifestate dal partner rispetto ai propri comportamenti;

2) LA TOLLERANZA E/O l’ASTINENZA: il dipendente sente il bisogno di aumentare sempre di più la quantità di tempo da trascorrere in compagnia del partner, riducendo sempre di più il tempo autonomo proprio e dell’altro e le relazioni con gli altri. Ecco perché, in questo contesto, viene anche definita come “dose“. L’assenza del partner (anche solo per lavoro, ad esempio), cioè, getta il dipendente in uno stato di allarme. Talvolta il bisogno della presenza fisica dell’altro è talmente forte che il dipendente sente di esistere solo quando il partner gli è vicino. Il partner infatti è visto come l’unica fonte di gratificazione, le attività quotidiane sono trascurate e l’unica cosa importante è il tempo che si trascorre insieme. Un comportamento che sembra alimentato dalla incapacità di mantenere una “presenza interiorizzata” rassicurante dell’altro, e quindi di rassicurarsi attraverso il pensiero dell’altro nella propria vita. L’assenza della persona da cui si dipende porta pertanto ad uno stato di prostrazione e di disperazione che può essere interrotto solo dalla sua presenza concreta e materiale (“Malattia del Sé perduto”, Whitfield, 1997).

3) L’INCAPACITÀ DI CONTROLLARE IL PROPRIO COMPORTAMENTO: connessa alla perdita della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro. Una riduzione, questa, che nel lungo termine crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta ed una ricaduta, spesso più profonda che mai, nella dipendenza.

Le principali cause all’origine della dipendenza affettiva vanno ricercate in particolari dinamiche familiari che hanno portato la persona dipendente ad una iper-responsabilizzazione e a costruirsi un’immagine di sé come di persona inadeguata, indegna di essere amata, dove il “termometro” della propria autostima è nella capacità di sacrificarsi per la persona amata. Sono persone che riescono a tollerare tradimenti o anche violenze da parte del partner perché senza di lui si sentirebbero completamente perse. Teniamo presente che la maggior parte dei dipendenti sono provenienti da famiglie fortemente “disfunzionali” (abusi sessuali, maltrattamenti fisici o psicologici, storia di alcolismo, bulimia o altre dipendenze nei genitori), nelle quali sono cresciuti sviluppando un profondo e radicato vissuto di inadeguatezza ed indegnità personale. Senza eccezioni, nell’infanzia è almeno presente un abuso di natura emotiva che i soggetti, terrorizzati dal fantasma dell’abbandono, non sono riusciti ad elaborare da soli.

Quindi la dipendenza affettiva nasce prima dell’inizio del rapporto di coppia. La persona dipendente d’affetto ricerca inconsciamente un partner che possiede già tutte quelle caratteristiche che la porteranno a soffrire. Anche quando il rapporto finisce (normalmente il dipendente viene lasciato), la persona dipendente troverà una nuova relazione in cui metterà in atto le stesse dinamiche di coppia; a meno che la sofferenza e la consapevolezza della dinamica in atto la spinga a cercare una cura e una soluzione.

La dipendenza affettiva affonda dunque le sue radici nel rapporto con i genitori durante l’infanzia. La dipendenza dall’altro è una condizione naturale degli animali e ancor più dell’uomo, soprattutto nei primi anni di vita, quando lo sviluppo cognitivo-emotivo e la formazione dell’identità non sono ancora completati, e quando la relazione con le figure adulte è lo strumento privilegiato di conoscenza di sé e del mondo. Chi da adulto è dipendente d’affetto, quando era bambino ha ricevuto continui messaggi da parte dei propri genitori di non essere degno di amore né di attenzioni. In altre parole, l’adulto dipendente d’affetto è colui che non ha potuto esserlo nell’età in cui questa dipendenza è sana, fisiologica e, in teoria, “dovuta”. Spesso sono stati infatti dei bambini che sono dovuti crescere troppo in fretta e hanno dovuto prendersi cura dei propri genitori, imparando così che l’unico modo per ottenere amore è quello di sacrificarsi per l’altro. Ciò che accomuna l’infanzia di chi soffre di dipendenza affettiva è comunque una situazione di carenza affettiva che da adulti si cerca di colmare e compensare con atteggiamenti iperprotettivi e controllanti nei confronti del partner.

La scarsa autostima all’origine della dipendenza affettiva fa sì che la persona si comporti nei modi più disparati pur di venire incontro ai bisogni del partner. Le donne dipendenti attuano comportamenti protettivi nei confronti del partner, rivestendo i ruoli di confidente, mamma, o infermiera in base alle necessità. La donna tende a mettere da parte i propri bisogni nel rapporto di coppia, e nelle situazioni conflittuali soffoca la rabbia, la rimuove o la dirige contro se stessa, manifestandola spesso in forma di sensi di colpa. Dietro tutto questo c’è sempre la paura che il partner possa abbandonarla. L’uomo dipendente, invece, è più facile che mascheri il proprio bisogno d’affetto proiettandolo fuori di sé, investendo gran parte delle energie nel lavoro, impegnandosi in hobby e sport, o comportandosi in maniera protettiva, talvolta fino all’eccesso della gelosia patologica.

Una delle domande che mi sono sentita porre più frequentemente è la seguente: è possibile che una persona cerchi sempre di ricreare le stesse dinamiche e si trovi sempre ad avere storie di dipendenza affettiva? E se è così, perché? Freud parlava di coazione a ripetere, oggi parliamo più comunemente di COPIONE. In ogni caso, ci si riferisce a quel processo che conduce il soggetto a riproporre automaticamente comportamenti e situazioni negative del proprio passato, in maniera del tutto inconsapevole, senza avere quindi la capacità di un cambiamento per il futuro. Anche se in realtà i co-dipendenti, nella vita di coppia, si riattribuiscono, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori, nel tentativo di cambiare il finale. Accade a tutti e fa parte del modo normale di funzionamento della mente, perché imparare a recitare lo stesso copione diventa paradossalmente rassicurante in quanto familiare (almeno si sa come muoversi nel conosciuto), e questo sebbene sia doloroso. Il passato diventa affidabile in quanto almeno conosciuto, quindi sappiamo già come muoverci all’interno di determinate dinamiche, per quanto malate. Il nuovo, invece, è sconosciuto, terra incognita. Senza riferimenti certi il senso dell’Io si spaesa, l’Ego si sente a suo agio solo nel vecchio, confortevole, sicuro mondo di sempre, il mondo delle sue certezze e delle sue convenienze. Quando ragiona per schemi, la mente del computer funziona al meglio, è veloce e abile (anche se grossolana); fuori dai suoi schemi si sco-ordina e si confonde. E quando si sente confuso, l’Ego ha paura. Per questo lotterà fino in fondo per difendere il suo vecchio mondo e, se costretto a lasciarlo, soffrirà. È la stessa sofferenza che prova il bambino quando lascia la madre o il ragazzo che lascia la famiglia. Infatti è fra la sicurezza di ciò che si conosce e la paura di ciò che ci aspetta che si snoda la nostra crescita e la nostra ricerca di noi stessi. E l’amore è stressante perché trascina l’Ego fuori da se stesso. L’amore è doloroso perché trasforma: l’amore è mutazione. Ogni trasformazione è come una generazione, travagliata dalle doglie. Per poter venire alla luce la nuova forma deve aprirsi un varco nella vecchia, e più questa fa resistenza, più c’è sofferenza.

Ma tornando più precisamente al concetto di dipendenza affettiva, questa, diversamente da quanto a volte si manifesta all’evidenza, non è un fenomeno che riguarda una sola persona, bensì è una dinamica a due. Per questo il termine più esatto da utilizzarsi è co-dipendenza: il dipendente vive un amore ossessivo che lede la propria dignità, mentre l’in-dipendente è incapace di lasciarsi andare ed accettare il rischio di amare. Sì, nella co-dipendenza, i protagonisti sono sempre due e, in genere, uno fugge e l’altro insegue. Accanto al “bisognoso”, infatti, c’è l’in-dipendente, il quale sviluppa una dipendenza non diretta, ponendo continuamente paletti alla relazione e calcolando tutti i rischi possibili e immaginabili prima di aprire un piccolo spiraglio del suo cuore.

Usando la metafora coniata dal mio Maestro, Loris Muner: “Il Vagabondo scappa per affamare l’Orfanello perché solo nel sentirsi inseguito, questi si sente amato”. Oppure, al contrario, il partner che “sceglie” di stare con una persona dipendente d’affetto, può percepire anche lui il bisogno di essere accudito e di avere una relazione di tipo figlio-madre anziché alla pari, anch’egli/essa per dinamiche e problematiche familiari irrisolte. Da una parte abbiamo quindi chi cerca di possedere a tutti i costi un’altra persona nell’illusione di far tacere quella fastidiosa voce appollaiata sulle proprie spalle che continuamente dice che non si vale, che non si combinerà mai niente di buono, che senza di lei/lui non si può vivere, mentre sull’altro versante la nenia reciterà che lei/lui impedisce la propria realizzazione ed è soffocante con le sue continue richieste di attenzione. Malgrado ciò, la cosa interessante è che gli in-dipendenti, per strana “coincidenza”, stanno sempre vicini a qualcuno che si attacca loro come una sanguisuga, salvo poi lamentarsi di non avere abbastanza spazio o di sentirsi soffocare, mentre i dipendenti si innamorano puntualmente di chi sfugge o si nega, lagnandosi di non essere abbastanza amati. Ognuno sembra essere alla ricerca del suo opposto… e scopriremo più avanti, negli approfondimenti che seguiranno, la ragione di questo, solo apparente, paradosso.

A livello profondo, ogni co-dipendente porta in sé un giudice interiore che lo condanna e lo rimprovera, per il quale la propria vita non è mai all’altezza delle possibilità di felicità, di libertà e di autoaffermazione che il sogno del bambino gli aveva promesso. Così, cerca di ridurre al silenzio queste voci affidando la propria felicità a un’altra persona, credendo che questa sofferenza possa essere lenita da qualcuno che accetti di metterlo al centro del suo universo, tanto quanto lui finge che l’amato sia il centro del suo. Pretendendo così ciò che non può essere imposto: l’amore. Una pretesa destinata inevitabilmente al fallimento. Ma invece di comprendere il fallimento come risultato inevitabile del proprio “delirio”, e come occasione di un primo risveglio, quasi sempre il co-dipendente cerca fuori di sé il colpevole: “E’ colpa sua perché è troppo asfissiante”, “Non mi dà abbastanza attenzioni”, “Se fosse diverso/a andrebbe tutto a meraviglia”. Ma quando felicità o infelicità non dipendono più dalle proprie scelte, e dalle loro conseguenze, ma dalle scelte di qualcun’altro, allora la sofferenza è garantita.

La salvezza è scoprire e affrontare la verità: l’origine della sofferenza non è nella relazione, bensì dentro se stessi. Per uscirne occorre imparare ad amare prima di tutto se stessi, ed essere consapevoli delle ragioni profonde della propria situazione, decidendo che non si vuole più avere a che fare con giochi di questo genere e scoprendo qual è il significato profondo, psichico e animico, della dipendenza. “Lavorando nelle comunità di tossicodipendenza e nei servizi, con le coppie e le famiglie – spiega Loris Muner, counselor clinico, formatore e supervisore in comunità terapeutiche, nonché fondatore della scuola di Counseling Dialogos da me frequentata e mio Maestro/supervisore – abbiamo scoperto che la domanda vera della dipendenza non era il controllo o il potere, bensì una sorte di sete spirituale di totalità. La dipendenza da sostanze, così come la dipendenza da un altro essere umano, nasce dalla nostalgia di un periodo in cui eravamo tutt’uno con qualcosa di diverso da noi e ci sentivamo molto più in pace ed espansi di ora, sia che si trattasse della pancia della mamma, sia che fosse l’essere completamente dispersi nel cosmo. Si tratta una nostalgia dell’infinito, del sacro e dell’unità”. Ecco perché una delle “cure” più consigliate è sostituire la dipendenza orizzontale con una in direzione verticale, ovvero sviluppare la propria spiritualità (molto diversa dalla religione, concetto che fatico sempre moltissimo a esplicare ai miei Clienti).

Ho trovato illuminante, sotto questo aspetto, il libro di Christina Grof (“Guarire dalla Dipendenza – alcol, droghe, consumi, affetti: autodistruzione e sete di completezza”, gennaio 1999, Red Edizioni). Nel corso della sua vita davvero ricca di variegate esperienze, questa donna (tra l’altro scomparsa proprio un anno fa circa, il 15 giugno 2014, a causa di una polmonite) si è occupata di due temi importanti, la spiritualità e la dipendenza, e dei collegamenti che esistono fra queste due. Alcolisti, tossici, schiavi del lavoro, succubi del cibo, degli acquisti, di una relazione sentimentale… C’è un’origine comune a tutte queste forme di dipendenza? Che cosa trascina nell’autodistruzione un essere umano? In questo libro la Grof, che ha esperito direttamente il tunnel delle dipendenze (ad ennesima riprova che chi è sceso all’Inferno sviluppa una dote speciale nel riuscire poi a far risalire chi ha saggiato il medesimo fondo, o, come recita quel proverbio che mia nonna pronunciava spesso: “Solo le mani piagate hanno il potere di sanare veramente altre mani piagate”), scava infatti davvero nei più profondi e meno scontati meandri di questo articolato fenomeno per individuarne una radice unica, esistenziale: cioè un’emergenza spirituale, che nasce dal bisogno di dare una risposta al mistero della propria identità, ma che nella patologia di dipendenza porta al dolore e all’annientamento. In altre parole la dipendenza è un processo sbagliato sul cammino della crescita spirituale; infatti, qualsiasi forma assuma, questa nasce da un’inquietudine e da un bruciante desiderio di completezza. Tutti sentiamo questa sete di chiarezza e tutti, in un modo o nell’altro, cerchiamo la risposta. Ma gli alcolisti, i tossici e in generale gli affetti da dipendenza, “sbagliano” direzione e si incamminano per un vicolo cieco che anziché all’arricchimento interiore li conduce al dolore e all’annientamento.

A tal proposito, l’autrice suggerisce come riprendere il cammino per avviare questa ricerca spirituale sulla giusta strada e liberarsi dalla dipendenza. Oltre che dall’esperienza diretta rispetto alla patologia, la sua autorità in materia deriva anche dall’aver fondato la “Rete di Emergenza Spirituale”, un’organizzazione intesa per dare aiuto alle persone che soffrono di perdita di identità e che hanno difficoltà a gestire il lavoro, le relazioni con gli altri o anche solo la vita quotidiana. Associazione creata perché, secondo l’autrice (che in questo ambito ha lavorato a stretto contatto e con molteplici collaborazioni con il marito Stanislav Grof – uno dei maggiori teorici della psicologia transpersonale – per es. nel libro a 4 mani: “La tempestosa ricerca di se stessi – crisi psicologiche e cambiamento”, Red Edizioni, 1995), la cura della dipendenza passa attraverso la possibilità di esperire la dimensione spirituale in un contesto protetto e di poterla condividere con persone che possano accoglierla e porla nella cornice idonea. Questa ricerca spirituale, tormentata ma indispensabile, è l’argomento del libro. Che suggerisce, anche con numerosi esempi concreti, come avviarla e come portarla a buon fine. Ma credo che le parole che la Grof usa nella prima parte dell’Introduzione del suo libro siano superbamente esplicative e chiarificatrici:

“Quando ho cominciato a guarire dall’alcolismo, mi sono imbattuta in una lettera del famoso psichiatra svizzero Carl Gustav Jung a Bill Wilson, co-fondatore degli Alcolisti Anonimi. Riferendosi a un ex paziente, Jung scrisse: “Il suo desiderio insaziabile di alcol era equivalente, a un livello inferiore, alla sete spirituale di completezza a cui il nostro essere anela, ovvero, per dirla con linguaggio medievale, all’unione con Dio”. Mentre leggevo quelle righe, ho capito che Jung stava descrivendo qualcosa che io conosco bene. Durante la maggior parte della mia vita, ho avvertito un forte desiderio che non aveva però un obiettivo specifico. Molti conoscono per esperienza ciò che sto dicendo. Io personalmente l’ho riconosciuto dal giorno della mia guarigione. Si tratta, ben inteso, di una sete differente, che va molto oltre la voglia fisica di alcol. Un giretto per negozi, una fetta di dolce, un abbraccio affettuoso: nessuna di queste soluzioni temporanee estingue la sete profonda a cui mi riferisco. Ho parlato con molti individui (sia con non-alcolisti, sia con gente che era appena uscita dalla dipendenza) e tutti descrivono questo stesso anelito alla base della loro vita. E’ un aspetto che permea l’esperienza umana, ma è stato male interpretato e usato in modi errati, talvolta letali. L’unica maniera in cui possiamo soddisfare con successo l’anelito esistenziale alla totalità e a Dio è attraverso l’incessante relazione con la propria immensa sorgente interiore”.

In questo senso il rapporto di coppia diventa una delle vie al sacro. Ciò avviene quando si avverte la sensazione che si sta ricontattando qualcosa di antichissimo, di senza tempo, che ha a che fare con l’infinito e con il divino, attraverso 1’unione con un altro essere umano radicalmente diverso, eppure così uguale da essere il proprio specchio. C’è dunque la possibilità di una trasformazione profonda proprio a partire dai giochi della personalità della dipendenza. E’ fondamentale però la consapevolezza e l’accettazione del dove ci si trova nel momento presente, per quanto attiene alle vere intenzioni che sorreggono lo stare insieme.

Essere co-dipendenti significa anche essere capaci di attenzione, disponibilità, sensibilità, solidarietà, interesse, amore per l’altro. Si tratta di ritrovare il proprio centro personale per poi riuscire a esprimere tutte queste qualità in modo sano. E a quel punto, non avrà più senso parlare di dipendenza e in-dipendenza. Si potrà finalmente parlare di amore autentico.


APPROFONDIMENTI

La responsabilità di essere libere

Un uomo che pratichi i misteri dell’amore
non sarà in contatto con un riflesso, ma con la verità stessa.
Per conoscere questo dono della natura umana è impossibile
trovare un aiuto migliore dell’amore.
Socrate (nel “Simposio di Platone)

La dipendenza affettiva è considerata la ferita dei non amati. Ed è inguaribile (a livello dell’Io). La ferita dell’amore provoca, di solito, una tristezza e un’angoscia che hanno a che vedere, fondamentalmente, con l’espulsione dall’Eden, dal grembo materno. Dall’eternità. Angoscia e tristezza sono il tratto distintivo della spiritualità occidentale fondata sulla colpa di disobbedienza ai comandamenti dell’Amore che produce senso di indegnità e di vergogna. E queste emozioni, a loro volta, bloccano il nostro crescere, ci fanno sentire abbandonati, incapaci, fragili e derelitti. Incapaci di assolvere ai compiti della vita adulta.

La ferita dei non amati è sì una ferita traumatica, ma non è una ferita patologica, bensì è una ferita ontologica. Prima di essere una ferita del corpo e della mente, il taglio del cordone ombelicale è una ferita dell’Anima. E se è vero che le ferite del corpo e della mente non possono guarire ma solo cicatrizzare, è altrettanto vero che quelle dell’Anima guariscono. Perché sia il copro che la mente quando sono feriti si chiudono, l’Anima invece si apre, si lascia penetrare e inseminare dal dolore, come la terra dal vomere e dal seme. Quello che per il corpo-mente è trauma, per l’Anima è gravidanza. L’Anima guarisce generando. L’Anima accetta come naturale la ferita della crescita; la fine, dal punto di vista dell’Anima, è sempre un nuovo inizio. Come recita il famoso detto: “ciò che il bruco chiama fine del mondo, il mondo chiama farfalla”.

Ma se le paure dell’Ego bloccano il processo di trasformazione, se l’Ego si arrocca nel rimpianto e nel rifiuto, nella colpa e nel rancore, punterà i piedi, farà opposizione, cercherà di nuovo di tornare nell’utero di sua madre, cercherà di trovare compagni che gli facciano da genitori, o a cui poter fare da genitore, in entrambi i casi per compensare il suo senso di perdita e di vuoto incolmabile. Questo è il grande sogno di tutti i co-dipendenti. Ma per quanto ci proviamo, non riusciremo mai a farci accogliere completamente dentro qualcuno, non ci stiamo, c’è già lui. Nel momento in cui ne prendiamo coscienza, ci accorgiamo di essere soli in questo immenso universo. Siamo profondamente soli (esternamente). Per sbloccare il processo evolutivo del nostro sé, è necessario cominciare a ridefinire le parole: non siamo stati espulsi, ce ne siamo andati. È la voglia di crescere che ci ha portati in questa vita, che ci ha fatto abbandonare l’infanzia, che ci ha messo nella centrifuga dell’adolescenza. Il progetto di crescita dell’Anima è proprio questo, dal Noi-familiare, all’Io-individuale al Noi-adulto. Sarebbe intelligente se, nello stesso momento in cui scopriamo di essere soli, cominciassimo a considerare i nostri partners non come dei sostituti dei genitori, ma semplicemente come compagni di viaggio. E allora smetteremo di chieder loro di diventare il nostro utero sostitutivo. Non chiederemmo più a loro di sanare le ferite dell’Anima, dell’amore, perché abbiamo compreso che solo noi lo possiamo fare. Nessuno potrà mai curarci per quelle ferite che abbiamo ricevuto nell’infanzia. E non potrà mai curarle perché quelle sono ferite che si curano solo a livello interiore, non dal di fuori, non serve a niente andare dalla madre reale né da quelle sostitutive (erotiche, amicali o terapeutiche) a cercare di farcele sanare, perché a furia di sollecitarle finiremo solo con il riaprirle e infettarle. Nessuno può essere l’unica cosa per nessuno. E nessuno ci può bastare. Perché non è solo facendosi coccolare, o entrando in una relazione con qualcuno, che ne usciamo. Ma è scoprendo dentro di noi i nostri doni, credendoci, mettendoli a disposizione di tutti e smettendola di fare dei paragoni perché nei nostri talenti e nelle nostre possibilità noi siamo assolutamente unici e irripetibili.

Possiamo ri-definire il nostro senso di abbandono non come l’effetto del non essere stati amati, ma come l’effetto collaterale del nostro rifiuto di sentirci soli, del nostro rifiuto di divenire adulti. Non bastano né l’amore né l’amicizia ricevuti a curare quelle ferite. Le ferite si cureranno da sole mano a mano che io mi concederò di condividere i miei doni con quanto più mondo possibile. Forse è stata la nostalgia della mamma a spingerci sulla via dell’amore. E questa via ci ha condotto in prossimità del Numinoso, l’auto-guarigione.

Per conoscere questo Dono del Cielo alla natura umana è impossibile trovare un aiuto migliore dell’amore. Non era nostalgia dei genitori, bensì era la nostalgia dell’Anima quella che ha messo in moto la nostra ricerca nell’adolescenza; non era il bisogno di essere amati come da bimbi, era bisogno di amare come gli adulti. Possiamo ri-definire la solitudine non come abbandono, ma come il necessario passaggio per conquistare la nostra libertà, e la libertà come strumento necessario per realizzare la consapevolezza del fine e dello scopo del nostro essere al mondo. La libertà viene intesa all’inizio come una meta che possiamo raggiungere una volta che ci liberiamo da qualcosa. In questo senso essere liberi significa essere in grado di agire come ci viene suggerito dal nostro Ego, che è anch’esso il prodotto di condizionamenti di vario genere, ma che ci appare in una prima fase come la nostra vera natura. Il primo passo consiste quindi nel chiedersi: libertà da che cosa? Da tutto ciò che ci impedisce di essere noi stessi, e di ascoltare quella che a noi sembra essere la voce della nostra Anima. Molti si fermano qui, per cui può succedere che si liberino dall’influenza dei genitori per poi creare, con il passare degli anni, altri tipi di legami molto simili a quelli di cui si erano liberati: ci sono coloro che si liberano da un partner particolarmente oppressivo, frustrante, noioso, e poi scelgono un altro partner che è magari ancora più terribile per quanto riguarda la capacità di instaurare un legame chiuso e stringerli in una morsa soffocante.

Per ciascuno di noi le cose da cui liberarsi sono diverse, ma più o meno tutti sappiamo quali sono gli ostacoli che ci stanno impedendo non solo di seguire la voce della nostra Anima, ma addirittura di esprimere la nostra personalità nel mondo. Se però, una volta che li abbiamo individuati, ci limitiamo a eliminare questi ostacoli, è molto facile che torniamo a commettere i medesimi errori, ricreando la stessa gabbia dalla quale ci eravamo liberati.

Se non siamo consapevoli che essere liberi “da” qualcosa è solo il primo passo da compiere per essere liberi “per” qualcos’altro, non godremo a lungo della libertà, perché questa ci stancherà, l’esaltazione che ha prodotto in noi si esaurirà in poco tempo. Affinché ciò non avvenga, è necessario che la nostra meta diventi l’essere liberi “per”.

Liberarsi da qualcosa è sempre un’operazione che ci procura dolore, sentiamo il dolore di esserci liberati da qualcosa che pensavamo ci appartenesse. L’interruzione di certi rapporti conflittuali, difficili da vivere (con i genitori, con il partner, con gli amici, con un certo ambiente, con un sistema di idee…) produce in noi una sensazione di benessere ma, allo stesso tempo, una nostalgia che può essere così struggente da essere tentati di tornare indietro a recuperare ciò che abbiamo abbandonato. La nostra libertà ha un senso solo se abbiamo molto chiaro, nella mente e nel cuore, “per che cosa” vogliamo essere liberi. Non ha senso, infatti, uscire da una gabbia in cui siamo stati prigionieri, se non sappiamo dove andare; rischiamo di rimanere fermi sulla porta, guardandoci attorno talmente smarriti che, se non incontriamo qualcuno che ci aiuta a orientarci e a godere delle occasioni che la vita propone, siamo tentati di voltarci e di rientrare nella gabbia. Lì dentro almeno troviamo un pasto caldo, e possiamo avere quel pochino di affetto che, fuori, è così difficile procurarsi.

La maggior parte dell’umanità, comunque, rimane in prigione per tutta la vita, non essendo nemmeno consapevole di esserci. Addirittura viene teorizzato che non è proprio il caso di porsi un tale problema, perché è questa la condizione umana cosiddetta normale. La prigione può essere rappresentata dal lavoro, dalla famiglia, da una particolare relazione, o anche da certi modi ripetitivi di affrontare la vita e le sue difficoltà. Alcuni esseri umani, pur sentendosi prigionieri, pur avvertendo il senso di costrizione dovuto alla loro condizione e lamentandosi per questo, non riescono a uscirne. Arrivano magari fino alla porta della prigione ma, non vedendo con chiarezza a che cosa potrebbe servire loro la libertà, decidono di sistemarvisi definitivamente e arredarla per renderla il più confortevole possibile.


Il ritmo del respiro

“Per una relazione è necessaria sia l’intimità che la lontananza;
infatti in una relazione viva esiste sempre lo stare vicini e l’allontanarsi:
avvicinarsi e allontanarsi senza distruggere le rispettive individualità.”
(Osho)

Sono due le energie con cui respira l’universo: la contrazione e l’espansione, (la conservazione e la trasformazione, l’attaccamento e la separazione, l’appartenenza e l’autosufficienza). La salute dell’Anima sta nel poter oscillare continuamente nel ritmo dei respiro dell’universo: inspirazione ed espirazione. Inspirare può essere tradotto come attrazione per l’intimità, ed espirare come attrazione per la lontananza, attrazione per l’incontro o attrazione per la separazione. Nel secondo corpo, quindi, c’è una pulsazione ritmica che lo fa essere, in certi momenti, profondamente concentrato sul bisogno dì tirare dentro di sé l’energia e, in altri momenti, sul bisogno di espandere energia. Una personalità sana è una personalità che non ha un’esclusiva attrazione per l’intimità e non ha un’esclusiva attrazione per la lontananza.

Il gioco della relazione ha inizio quando si incontrano due energie della stessa qualità ma di polarità opposte, una per sua natura portata allo stare nell’incontro, l’altra più nello stare nella separazione. Questo incontro (che avviene a livello dell’energia sottile) da inizio alla danza degli amanti: uno scappa, l’altro rincorre. Questo, in sé, non è né bene né male: se la polarizzazione non è troppo accentuata, se il gioco non viene fatto in modo stereotipato, se è fluido. Fa male e fa soffrire solo quando è molto esagerato o in un senso o nell’altro. Che ci sia pulsazione è normale, perché la coppia respiri è necessario che si stia un po’ dentro e un po’ fuori. Ciò accade quando si pulsa all’unisono con il secondo corpo (sede delle repulsioni e delle attrazioni), e c’è questa oscillazione sana, tra il desiderare di starsene da soli, e il desiderare di stare vicini. Applicato al discorso della coppia inspirare è: trovare dentro la coppia, e solo lì (e quanto più dentro si è, tanto meglio è) i motivi della propria serenità, felicità e appagamento. Dall’altra parte, espirare è: trovare fuori della coppia (cioè starsene per i fatti propri) l’appagamento e la realizzazione della propria essenza. Tutti i nostri corpi (da quello fisico a quelli “sottili”) hanno questa oscillazione di espansione e di contrazione.

Non riconoscere il proprio ritmo è causa di litigi, di fraintendimenti, di rimproveri (tranne che nella fase dell’innamoramento, considerato che è un delirio sublime). Quando due si mettono in coppia è bene sappiano di avere un ritmo e che difficilmente i ritmi sono uguali, perché, in una relazione di coppia, dovremmo essere molto ben consapevoli che l’altra persona ha delle fasi che non necessariamente coincidono con le nostre. La relazione di dipendenza, in misure e modi differenti, o in periodi particolari della vita, è esperienza comune alla maggior parte di noi. Può manifestarsi verso un figlio, un fratello, un compagno/a, un coniuge, un genitore, anche verso un lavoro, oppure se facciamo una professione di servizio o di aiuto, anche verso gli utenti. E questa si innesta semplicemente ogni qualvolta permetti al comportamento di qualcuno di determinare il tuo. Se ti innamori della persona sbagliata, ci metti anni per lasciarla o per farti lasciare, e poi ti metti insieme a un’altra simile. Se cerchi il principe azzurro e passi la vita a baciare rospi. Se non sei attivo ma re-attivo. Se metti l’interesse per l’altro al di sopra dell’interesse per te stesso. Se sei ossessionato dal bisogno di tenere sotto controllo e gestire la vita di un’altra persona, spesso con la “scusa” di aiutarla (perché l’assenza della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza nell’infanzia genera spesso il bisogno di controllare l’altro, nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto). Se perdi il controllo e la gestione della tua vita. Se dai la responsabilità della tua fatica di vivere a qualcuno o qualcosa che non sei tu. Se pensi che la soluzione dei vostri problemi risieda nel cambiamento dell’altro (se lui/lei…allora io… sarò…potrò…. farò…..) Se ti rassegni a subire comportamenti che ledono la tua dignità e alimentano il tuo auto-disprezzo. Se ti lasci andare a comportamenti persecutori dicendo o facendo cose, talvolta assurde o contraddittorie, di cui ti vergognerai e per cui ti sentirai in colpa. Se per compiacere o inseguire l’altro, perdi l’interesse per te stesso, per il tuo lavoro, le tue amicizie, il tuo stesso vivere. In maniera certamente sbagliata, si vuole credere che l’amore esiste e che sia capace di dare un senso alla vita. E questo è certamente possibile, ma solo prendendo in mano la responsabilità della propria vita e lasciando agli altri la responsabilità della loro.

Le personalità co-dipendenti

“Molte donne commettono l’errore di cercare un uomo con cui sviluppare una relazione senza prima avere sviluppato una relazione con se stesse; corrono da un uomo all’altro, alla ricerca di ciò che manca dentro di loro… La ricerca deve cominciare a casa, all’interno di sè…Nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stesse, perchè quando nel nostro vuoto andiamo cercando l’amore, possiamo trovare solo altro vuoto”.
(Robin Norwood, Donne che amano troppo)

Ci sono delle persone che sono, o credono di essere, solo orientate a dire: «Senza di te la mia vita non ha senso», «Ho proprio bisogno di te per poter vivere», sono persone che pulsano solo dentro la coppia. Mentre le persone che pulsano fuori dichiarano prevalentemente: «Ho bisogno dei miei spazi», «Ho bisogno di starmene un po’ per i fatti miei». Siamo ovviamente dinnanzi a due polarità opposte, l’introverso e l’estroverso, il passivo e l’attivo, lo Yin e lo Yang, il maschile e il femminile, il vuoto e il pieno, il morbido e il duro. Durante il corso triennale di Counseling che ho frequentato presso l’Istituto Dialogos, il mio Maestro, Loris Muner, li aveva battezzati (e tutt’ora li indica con questo nome, che anche tutti gli ex studenti continuano ad usare): il “Povero Orfanello” & l’”Inquieto Vagabondo”. Questi due Modelli Ideali della Vita Universale si cercano, si attraggono e si incontrano. Se la connessione va bene, vuol dire che le polarità sono mature, non sono più spaventate l’una dall’altra e sono sufficientemente centrate da apprezzare se stesse, e allora ben presto cominceranno anche ad apprezzare la presenza dell’altro, sapranno tollerarsi e fecondarsi a vicenda, stando sempre ben attenti a proteggersi da se stessi e dall’altro. Se le due polarità sono immature, allora l’incontro diventerà ben presto uno scontro, pieno di risentimenti, rancori e frustrazioni, ovvero quello che noi chiamiamo, per l’appunto, rapporto di co-dipendenza.

L’intensità della co-dipendenza viene facilmente misurata dal grado di sofferenza della relazione. Quando dite al partner (o anche a un amico, o a un familiare, ecc.) che una cosa che vi è capitata vi fa star bene, che ne siete proprio contenti, lui manifesta gioia oppure tende a sminuire e svalutare, o addirittura si mostra addolorato per il vostro stato di felicità? Da questo semplice test si può capire che tipo di legame condividete con questa persona.

L’amore, il suo sentimento e le sue passioni non c’entrano nulla: la mamma che svaluta la femminilità della figlia lo fa per amore, così come un coniuge che svaluta e deprime gli slanci dell’altro, anche questo è amore. È un amore spaventato, stralunato, insicuro, che è fissato più a mostrare la Mancanza che a rivelare la Presenza. È amore, anche se improprio, è una relazione di co-dipendenza, una forma di legame che è basato sulla sofferenza. Le polarità si sono sclerotizzate, si sono avvolte su se stesse, come due basilischi si fissano negli occhi senza potersi staccare né distrarre, pena l’annientamento. Vuol dire che si sono bloccate in un Pendolo in cui uno fa solo l’“Orfanello” e l’altro solo il “Vagabondo”. È l’antico gioco di chi sta assieme mosso più dalle carenze che dall’abbondanza. Questo gioco consiste fondamentalmente nel fatto che quando uno sta bene l’altro sta male, quando uno si avvicina l’altro si allontana. In sé non è che un meccanismo di potere, un gioco che si danza sempre in due, in ogni coppia quello che accade all’uno è in strettissima relazione con quello che sta accadendo all’altro. Quindi il “é un problema suo”, non può sussistere. Se Tu hai un problema, significa che Noi abbiamo un problema. Noi crediamo, quando siamo nella relazione, che ciò che sta accadendo, con tutti gli annessi e connessi, dipenda da un gioco crudele o malato che fa l’altra persona, a cui noi stiamo solo re-agendo, mentre vorremmo con tutte le nostre forze che finisse. Ma in una coppia non c’è uno solo che ha il problema della dipendenza, ce ne sono sempre due o più.

Non c’è nessun essere a questo mondo che sia dipendente da un altro, se quest’altro, in qualche modo, non é anche lui implicato nella dipendenza. Di conseguenza nelle relazioni non si può parlare di dipendenza, ma solo di co-dipendenza. Questo fenomeno è stato individuato circa tre decenni fa, forse quattro, negli Stati Uniti, nelle mogli degli alcoolisti che stavano dipendendo, a loro insaputa, dall’alcoolismo del marito. Erano dipendenti dal fatto che il marito fosse bisognoso delle loro attenzioni e delle loro cure. É stato in questo modo che è nato questo filone di ricerca rispetto alla co-dipendenza.

L’attitudine alla co-dipendenza, in qualche modo, è dentro tutti noi dal momento che tutti noi ci siamo sentiti deprivati o soffocati dall’amore dei genitori. In qualche modo siamo tutti dipendenti, nella versione “Povero Orfanello” o “Inquieto Vagabondo”.

Si è notato che quando il “Povero Orfanello” o l’”Inquieto Vagabondo” troncano un rapporto, l’uno con qualcuno da rincorrere, l’altro con qualcuno che lo rincorra, spesso va alla ricerca di un altro compagno con problemi simili, reiterando i comportamenti co-dipendenti con il nuovo partner: una dinamica che sembra più forte della volontà.

Non importa di chi sia la colpa e quali le cause, la co-dipendenza è un problema personale e risolverlo è di propria responsabilità. Il “Povero Orfanello” ha bisogno di un “Inquieto Vagabondo” da redimere e convertire ai valori della famiglia, della casa, della intimità, e l’“Inquieto Vagabondo” ha bisogno di un “Povero Orfanello” per convincersi viepiù della necessità di mantenere la propria in-dipendenza contro quella megera che lo vuole intrappolare e ridurre in sua balìa.

Queste tendenze non si creano nella co-dipendenza, anche se la sofferenza della co-dipendenza le fa emergere, ma sono connaturate alla personalità che si é costruita nella storia di ognuno. Gli Orfanelli sono già, per conto loro, sofferenti a causa della loro attitudine all’unione e basta. Tant’è vero che non appena si profila l’opportunità o la necessità di separarsi, prendono paura, protestano, piangono, si sentono morire. Questo avviene non solo per l’angoscia che sorge al pensiero di non essere più appiccicati al partner, ma anche per la paura di scoprire chi veramente sono senza l’altro vicino. Se a un “Povero Orfanello” dite: “Sentiti libero per un certo periodo”, questi verrà preso dal panico perché la libertà viene da loro vissuta come abbandono, morte, un vuoto interiore, nero e ghiacciato, da cui chissà quali mostri potrebbero uscire. Dall’altra parte, l’”Inquieto Vagabondo”, terrorizzato dall’intimità, nel senso che ha un’attrazione spasmodica per la lontananza, è quasi ancora più sofferente. Se si trova in un rapporto dì coppia, può sentirsi in colpa, ad esempio, per non riuscire a mantenere l’impegno che si è assunto, soprattutto se si tratta di stare assieme per tutta la vita. Quando scopre di stare più volentieri fuori che dentro la relazione, nasce in lui la consapevolezza di non essere capace di amare, di non essere in grado di mantenere fede alle promesse e alle aspettative suscitate. I Poveri Orfanelli sono dipendenti per loro attitudine particolare, hanno la dipendenza dentro di loro, come caratteristica fondamentale di struttura della personalità. Gli Inquieti Vagabondi all’opposto, hanno come loro struttura l’anti-dipendenza, sono allergici alla routine della relazione stabile. In una relazione di coppia non può esserci solo un dipendente, lo sono tutti e due. Se l’”Inquieto Vagabondo” compie un’autentica introspezione dentro di sé, può scoprire quanto ha bisogno che il “Povero Orfanello” dipenda da lui. In realtà sia gli Orfanelli che i Vagabondi hanno il terrore della profondità e dell’intimità autentica, della relazione da persona a persona, ma hanno anche il terrore del vuoto della solitudine, e allora si accontentano di stare in una relazione “taroccata”.


LE ORIGINI DELLA CO-DIPENDENZA

Gli Orfanelli
Da adulti cercano, soprattutto nel rapporto di coppia, qualcosa che non hanno avuto nella loro infanzia. Quando erano piccoli non si sono sentiti sufficientemente amati, apprezzati, valutati, tenuti in considerazione, degni di vivere, perché in qualche modo c’era sempre qualche cosa che non andava bene di quello che dicevano, facevano, pensavano. Hanno imparato molto precocemente a dissimulare i loro pensieri e a reprimere le loro emozioni; hanno cominciato molto precocemente a compiacere le persone per loro significative affinché dessero loro l’amore. Questo gioco, che ha inizio durante l’infanzia, continua per tutta la vita, assumendo caratteristiche diverse a seconda delle varie età.

Soprattutto il bambino e la bambina molto deprivati da parte dei genitori (dell’uno, dell’altro o di tutti e due) del riconoscimento di essere amabili, di essere degni di ricevere l’amore, o cresciuti addirittura in un ambiente familiare in cui lo stile di comunicazione prevalente è la dis-conferma (cioè il non riconoscimento o la sconferma di quello che sono, che pensano, che sentono, che dicono, che fanno), sviluppano una tendenza a cercare per tutta la vita qualcuno che li confermi. Questo meccanismo é all’origine della dipendenza affettiva. Dunque le persone che escono da vissuti infantili e familiari di questo genere, diventano molto spesso dei dipendenti affettivi, e, nello specifico, ricopriranno il ruolo degli “Orfanelli”.

Sono persone che si portano dentro il bisogno di essere amati, apprezzati, considerati, solo così sentono di valere qualcosa e che la loro vita ha un senso. Questa aspirazione si esprime soprattutto attraverso la prova d’amore, nel senso che l’amore viene assunto come prova del proprio valore e della propria sicurezza personale: tu mi ami, quindi io esisto.

I Vagabondi
Mentre l’“Orfanello”, che si porta dietro la nostalgia di qualcosa che non ha avuto, o che ha avuto nei modi sbagliati, si sente trascurato dal partner, il “Vagabondo”, che si porta dietro il fastidio per essere stato privato di un suo spazio vitale (soprattutto da parte di una madre particolarmente oppressiva e controllante, o da parte dì un padre particolarmente autoritario), si sente oppresso dal partner. Questo ruolo rimanda a un’infanzia in cui lo spazio vitale del bambino è stato pesantemente invaso da un accudimento possessivo ed invasivo che ha violato i suoi confini.

Diffidano perciò dell’amore, per difendersi dal rischio di venir nuovamente delusi, non sviluppano una dipendenza diretta, ma invece qualcosa che può essere chiamato in-dipendenza (o anti-dipendenza): il loro cuore rimane chiuso al sentimento perché hanno paura di non potersi difendere dall’invasività dell’altro e sono incapaci di lasciarsi andare al rischio dell’amore. Nei rapporti mettono sempre le mani avanti e prima di impegnarsi con una persona la sottopongono a numerose prove. Gli “Inquieti Vagabondi” si difendono dal provare la sofferenza della de-lusione, ovvero di ri-sentire quel dolore che hanno provato nell’infanzia, e nell’adolescenza, attitudine dovuta alla ferita dei non-visti. Hanno bisogno di tantissimo tempo e di particolarissime attenzioni prima di lasciarsi andare.

Ammettono molto raramente di aver bisogno (di solito quando sentono concreta la minaccia di essere lasciati). Così mentre l’”Orfanello” tende ad essere una zecca e un mendicante d’affetto, il “Vagabondo” tende ad assumere le caratteristiche dell’orso che sta molto in disparte, oppure del super impegnato che non sta mai fermo, comunque di una persona che dà l’idea di essere inafferrabile e che rivendica con ostinazione il diritto al suo spazio vitale e ad essere lasciato in pace. Anche quando c’è, non c’è veramente. Può trovarsi ad esercitare un ruolo di persona sfuggente, irraggiungibile o rifiutante (per esempio quando il dipendente d’affetto cerca un partner sposato o non interessato alla relazione), per sentirsi così al centro dell’attenzione e compensare anche lui dei vuoti affettivi mai colmati.

La cosa interessante però, è che il “Vagabondo” sta sempre vicino all’”Orfanello” bisognoso. Il “Vagabondo” è sempre in giro, ma torna sempre, anche se, ogni volta che il “Povero Orfanello” è convinto di averlo afferrato, il “Vagabondo” riparte, non si ferma mai, allora l’”Orfanello” si ritira piangendo, riprende il suo posto di mendicante e vittima e riprende la lagna, che per il “Vagabondo” è quanto di più insopportabile. Ma anche se il “Vagabondo” si lagna del bisognoso, finisce sempre con il tornare da lui. Risulta quindi lampante che, per poter continuare a giocare il gioco, ognuno ha bisogno dell’altro.

L’“Orfanello” dice: «Non sei mai abbastanza vicino a me» e il “Vagabondo” controbatte invece con: «Ho bisogno dei miei momenti di libertà. Lasciami stare». Normalmente i ruoli non sono rigidi, a seconda del momento del nostro ciclo di vita possiamo sviluppare, pur restando sempre noi stessi, sia attitudini da “Povero Orfanello” che da “Inquieto Vagabondo”, ed esse variano non solo con l’età, le crisi esistenziali e i momenti fisiologici di passaggio, ma anche a seconda dei vari contesti in cui ci troviamo a vivere: contesto di lavoro, rapporto con il coniuge regolare, rapporto con l’amante, rapporto con il figlio unico, il rapporto coi genitori, ecc. ecc..


LE VARIANTI

Coppie di Orfanelli
Non c’è nessun gioco di relazione possibile solo tra “Poveri Orfanelli”, perché se due dipendenti sì trovano assieme, inevitabilmente scatta in uno dei due qualcosa che ha a che fare con l’in-dipendenza, oppure sono delle coppie assolutamente perfette, complementari, che vanno d’accordo in tutto, anche se non sanno di dipendere l’uno dall’altro, sono incapaci di fare le cose da soli: bisogna andare sempre in due!

Basta che uno dei due rompa quest’equilibrio instabile e l’altro si sente perso. Non litigano quasi mai, ma quando litigano arrivano facilmente alla rottura. La crisi scoppia non appena uno dei due, per qualche motivo, non può più stare nella dipendenza. Ma fin quando la dipendenza è reciproca, la cosa può anche tenere, può essere anche soddisfacente per le persone, può anche sembrare un’unione meravigliosa. A volte viene persino scambiata per un grande amore. In realtà c’è semplicemente la ricerca, da parte di tutti e due, di ritrovare quell’ affetto, quella protezione, quella fusione simbiotica che non hanno avuto da bambini. C’è sicuramente, in tutti e due, una mancanza di capacità ad essere autosufficienti, dal momento che entrambi questi individui identificano proprio in questa vicinanza estrema l’esaltazione massima di ciò che immaginano dovrebbe essere un rapporto di coppia, sebbene si tratti sicuramente di un’idealizzazione.

Molte le evenienze che possono minacciare questo equilibrio: la finalizzazione di un progetto comune (un lavoro, una casa, un figlio), un incontro, una defaillance dell’altro, o anche semplicemente la crisi di mezza età, possono far saltare dolorosamente una situazione di questo genere.

Coppie di Vagabondi
Se si trovano assieme due “Vagabondi”, la relazione si scioglierà appena passato lo sballo dell’innamoramento, a meno che uno dei due cominci a essere un po’ meno indipendente, rivelando una sua più radicata attitudine alla dipendenza. In realtà, sono due che non riescono a stare molto assieme, perché ambedue staranno molto separati, e, più stanno separati, più c’è la possibilità che tutti e due trovino da qualche parte un compagno di giochi dipendente. Si tratta di un’evenienza molto frequente poiché, nel mentre si va celebrando a livello mediatico una esaltazione della cultura dell’in-dipendenza, il mito dell’uomo (e della donna) che non deve chiedere mai, paradossalmente quella dell’in-dipendenza non è la cultura dell’autosufficienza (se non a livello dei consumi).

Possessività e Gelosia
Un rapporto di coppia, quando è fortemente condizionato dalla co-dipendenza, porta sempre con sé la filosofia del possesso (io sono tuo, tu sei mio) e il possesso si trasforma ovviamente nel sentimento della gelosia.

Un segno sempre presente nella co-dipendenza è, infatti, la gelosia morbosa. Il “Vagabondo” si lagna della gelosia asfissiante dell’“Orfanello”, tuttavia é interessante notare come, quando l’“Orfanello” con fatica cerca di liberarsi dalla gelosia e dal possesso, il “Vagabondo” manifesta disagio e preoccupazione, perché l’“Orfanello” non dimostra più quell’attaccamento che lo rassicura così tanto.

Se il “Vagabondo” sente che l’altro non è più geloso come una volta, questo significa, dal suo punto di vista, che non vuole più possederlo. E questo lo fa star male perché se l’altro non vuole più possederlo, significa che non desidera più avere un rapporto con lui, oppure significa che può benissimo fare a meno di lui e cavarsela da solo. E allora il “Vagabondo” scopre con orrore che è lui quello che non sa cavarsela da solo.

È evidente che tutto ciò esprime una relazione non serena, fortemente condizionata dal ragionamento del “Vagabondo”: “Solo se lui/lei farà di tutto per possedermi, io sarò sicuro che mi ama”. Che fa il pari con il ragionamento equivalente dell’“Orfanello”: “Solo se lui si lascerà possedere da me, vorrà dire che mi ama”. Questo Gioco si struttura sul desiderio che uno muoia dalla voglia di possedere l’altro e sulla certezza che questi, dentro di sé, non lo permetterà mai. È evidentemente un meccanismo perverso che, se lasciato a se stesso, fa soffrire entrambi.

Del resto l’“Orfanello” ha bisogno di qualcuno da rincorrere per sentirsi in pista. Perché l’“Orfanello” è motivato solo dall’amore impossibile, il suo motto è: “io ti redimerò”, (ti darò una casa, una famiglia, un rapporto stabile e sicuro,) in pratica “io ti cambierò” e spesso il “Vagabondo”, più o meno consciamente, avverte che se si facesse prendere, potrebbe non essere più così desiderabile per quella piattola.

Il fatto è che il “Vagabondo” si sente sicuro solo quando sente che l’“Orfanello” si sente molto triste per la sua lontananza, allora può star bene. L’“Orfanello” si sente bene solo quando riesce a domare e rendere docile il “Vagabondo”.

Il “Vagabondo” può arrivare al punto di essere cattivo e trattare male il partner dipendente, il quale, a volte, prende questo essere trattato male come un segno di attenzione. Così si innescano gli eterni litigi tra “Orfanelli” e “Vagabondi”, a colpi di insulti o grandissime, quanto inutili, discussioni filosofiche che non approdano mai a niente se non spesso, dipende dall’età, in focose notti di sesso. A volte, queste ultime arrivano a diventare l’unico legame per giustificare la permanenza nella relazione, prova evidente della passione che li unisce. In realtà c’è una relazione fra conflitto di coppia e sessualità grandiosa; il gioco, infatti, provoca una grande ansia che poi richiede uno scarico, e lo scarico si realizzerà attraverso ciò che ci hanno insegnato a chiamare atto d’amore.

La via d’uscita dalla co-dipendenza
Stabilito che l’origine della co-dipendenza non è nella coppia bensì nella storia di ognuno dei due, come si esce dalla co-dipendenza relazionale? Innanzitutto non se ne esce cambiando partner, se ne esce cambiando vita.

L’importante è partire da dove siamo: qualunque viaggio inizia dalla coscienza di dove siamo ora, perciò la prima mossa è divenire consapevoli di quale sia il ruolo che si sta giocando prevalentemente all’interno della coppia e del gioco che si sta giocando insieme: sono presenti tutte e due le polarità che si alternano, un giorno l’una, un giorno l’altra? Abbiamo assunto uno stile di comportamento che ci ricorda di più il “Vagabondo” o l’”Orfanello”? A dire il vero, a volte c’è qualcuno che non è nemmeno in grado di dire se è più cozza o più orso. Si fa prima a dire siamo tutti co-dipendenti…

In ogni caso, una volta stabilita qual è la maschera prevalente in noi, è necessario che l’”Orfanello” divenga consapevole della sua pretesa che il compagno diventi un utero in cui re-infetarsi, ovvero la madre da cui non si è mai sentito accettata/o; e che il “Vagabondo” divenga consapevole del fatto che come un bambino viziato vuole fare tutto quello che vuole pur rimanendo nella coppia e della sua pretesa che l’altro rimanga sempre a sua disposizione struggendosi per lui (come faceva sua madre).

È necessario che ognuno dei due divenga consapevole dell’aspettativa inconscia che ha proiettato sulla relazione, della sua credenza che se riuscirà a sottomettere l’altro o a farsi volere, potrà essere curato dalla ferita che lo tormenta da sempre: la ferita dei non visti. Degli illegittimi. Degli ultimi. È necessario anche che tutte e due divengano consapevoli dell’aspettativa di risarcimento, di riparazione, che entrambi proiettano sulla relazione, ovvero che questa debba per forza compensare tutto ciò che li ha feriti nei primi dieci anni di vita.

È necessario riconoscere, cioè, che questa tendenza proiettiva nonché questa pretesa compensatoria corrispondono ad uno stato di coscienza infantile, che, per usare una terminologia un po’ colorita, definirei la condizione di bambini incazzati come bisce e tristi come rospi, come soltanto possono essere i bambini. Bambini che a Natale rovinano la festa mettendo il broncio, bambini che sono montati sulla seggiola e hanno giurato, come solo sanno fare i bambini: “Non mi avrete. Ve la farò vedere io chi sono. Io non mollerò mai!”. Giuramento sacro quanti altri mai e che l’adolescente si impegna, mente e corpo, come solo sanno fare i ragazzi, a rispettare.

Dalla dipendenza se ne esce quando avremo il coraggio di arrenderci, di rompere quel giuramento. È lo stesso processo di auto-guarigione del Perdono e del superamento del Lutto e persino i 12 Passi degli Alcolisti Anonimi(1) vengono chiamati in campo per riuscire a girare pagina in questo senso (tra l’altro la dipendenza affettiva non solo è “la droga per eccellenza” per molte persone, ma ci sono migliaia di alcolisti e tossicodipendenti in recupero che soffrono di dipendenza affettiva e non ne sono coscienti. La dipendenza affettiva può essere meno problematica rispetto alla loro dipendenza da droga o alcol, ma può minare il loro recupero da queste sostanze), come spiegherò meglio nel capitolo successivo:

1° Passo: Superare la negazione. Riconoscere che è così e basta. Me lo dice la mia vita, la storia delle mie relazioni, i miei fallimenti, la mia continua frustrazione.

2° Passo: Accettare la rabbia profondamente, dentro di noi, accettare che siamo arrabbiati con nostra madre, con la famiglia, con il mondo, con Dio. Siamo delusi ed “incazzati”.

3° Passo: Andare oltre i compromessi. Accettiamo che nonostante avessimo giurato che non ci saremmo mai accontentati di niente di meno che della felicità, dell’amore vero, nonostante ci fossimo presentati al mondo come dei puri e dei duri, che non avevano bisogno di nessuno, alla fine abbiamo accettato di svenderci, di scendere a compromessi inauditi, accontentandoci anche delle briciole pur di avere l’attenzione di qualcuno, piuttosto che niente, piuttosto che continuare ad avvertire quel vuoto senza fondo. I vagabondi non facciano quell’aria soddisfatta, nonostante si vantino di non essere cascati nelle trappole dell’amore, guardino la vita miserabile che conducono non potendo amare, né fidarsi di nessuno.

4° Passo: Riconoscere che siamo molto spaventati all’idea di affrontare da soli la vita. Se non ti accompagnano tuo Padre e Tua Madre, e la tua fiducia in loro, come fai ad affrontare il buco nero del tunnel per cui ci si introduce alla vita adulta? La verità è che abbiamo paura all’idea di affrontare l’esistenza assumendoci totalmente la responsabilità della nostra vita, e anche di raggiungere quella felicità che abbiamo giurato di ottenere, per sbatterla in faccia al mondo. Affrontiamo quindi la tristezza per la nostra infelicità, perché alla fine, con tutta la nostra saccenza, siamo finiti per rimanere intrappolati nella paura di non essere amati e nel nostro sentirci sempre fuori posto, nel nostro sentirci inadeguati.

5° Passo: Arrendersi. Rinunciare alle aspettative e alle pretese, tirarci su le maniche e darci da fare allo scopo di assicurarci da soli la sicurezza, la protezione, l’amore che abbiamo sempre agognato. Sceglierci un compagno di viaggio sapendo che abbiamo bisogno di sostegno, compagnia e condivisione nel nostro percorso. Accettarlo così com’è senza pretendere di trasformarlo a nostra immagine e somiglianza. Uscire dalla corazza difensiva in cui ci siamo rinchiusi e imparare la lezione che il nostro partner ha da insegnarci: gli “Orfanelli” possono riconoscere in sé la loro voglia di libertà e di realizzazione e i “Vagabondi” possono imparare ad apprezzare il calore dell’amore sincero, accogliente, smettendo di scappare nei loro deserti interiori.

Dunque, diversamente da quanto comunemente si crede, l’amore nasce dall’incontro di due unità, non di due metà. Perché solo per chi si percepisce nella sua completezza è possibile donarsi senza annullarsi, senza perdersi nell’altro.